Eind van comfortzone

Aan de andere kant van de rivier was ik nog niet geweest. Ik kon nog geen brug zien die mij blijkbaar naar de andere wereld kon leiden.  Ik stond nog aan de grens tussen mijn comfortzone en de realiteit die rustig op mij en op andere moedige zelen wachtte. Het verschil tussen stilstand en beweging was zó klein dat je dat amper kunt merken. De blik vanaf die andere kant was niet dezelfde. Ik zou daar een buitenlandse moeten zijn. Maar óók hier, aan de bekende kant, zou ik vreemder dan ooit klinken. Ik was niet meer dezelfde. Ik praatte niet meer té veel, ik kon sommige verhoudingen niet meer begrijpen en accepteren. Wat ik aan het begin gek en onzin vond van de andere wereld werd normaler en andersom. Er was een soort strijd in mijn hoofd tussen de ene en de andere wereld. Ze konden naar elkaar niet luisteren, hoewel ze probeerden een band te creёren. De menselijke natuur is tegelijkertijd raar en interessant, zo moeilijk te doorzien en voorzien. Op het ene moment zeg je dat je naar die wereld niet meer zal terugkomen, op het andere zeg je dat je om verschillende en absoluut redelijke redenen toch wél zal terugkeren. En dat is het. Dat is de strijd waar je voor de eeuwigheid mee rekening zal moeten houden. Niemand kan jij het juiste antwoord op je vraag geven. Je zal wél van mening veranderen wanneer het slechter zal gaan. Maar je oud zelf zal in ieder geval niet meer terug, want cultuur is niet alleen aangeboren, maar ook wél aangeleerd.

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Dopo molto tempo

nach miglioreeeeeed

Dopo molto tempo non sapevo più chi fossi, ero sempre alla ricerca di qualcos’altro, sebbene fosse impossibile determinare di che cosa esattamente, avevo l’impressione di non conoscere la giusta via, tanto che persino le stelle erano oscurate dalla confusione, però in realtà mi piaceva. Scoprii che la via di casa era più vicina di quanto immaginassi.

 

 

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Lui era uno, nessuno e centomila. Parte 1

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Sentivo il mio cuore pulsare sulla colonna a cui mi ero appoggiata. Non riuscivo a fermarlo, più gli imploravo di rallentare, più sembrava perdere il controllo. Mi aggrappai alla colonna, la superficie era fresca, liscia e mi ricordai di quando a dieci anni, dopo la lezione di nuoto, andavo a farmi la doccia. <<Tieni le ciabatte ai piedi, altrimenti ti prendi i funghi>>, ma come al solito facevo di testa mia, mi toglievo le ciabatte e con il palmo del piede sentivo la superficie delle piastrelle, liscia, piacevole. Non pensare alle conseguenze doveva essere un vizio, qualcosa che risiedeva nel DNA, non ci si può opporre. Presi il telefono e cominciai ad ascoltare musica per distrarmi.

Erano le 15:27. Non riuscivo a concentrarmi sulla musica, mi sembrava come di non capire il testo, di non capire effettivamente più niente. La vita, al di là dei miei portici di Piazza Unità, scorreva tranquilla, nella beata condizione di mediocrità che permette alle persone di strappare i giorni del calendario, uno dopo l’altro. Davvero, non credo che quella signora con le buste della spesa, sullo sfondo, potesse avvertire nell’arco della giornata la mia stessa scarica di adrenalina. 15:28.

Il tempo si era cristallizzato, quelli che erano secondi, li percepivo come entità temporali astratte che fluttuavano in uno spazio indefinito. Il caldo, le lancette dell’orologio che non ho mai avuto e lo sfondo si stavano mescolando e confondendo, portandomi a quella sensazione di svenimento. Eppure, accasciarsi al suolo sarebbe stata la soluzione più facile. Codarda. Affronta te stessa. 15:29. Dopo la fase acuta cardiaca, subentrò quella calma apparente tipica di chi in realtà vorrebbe collassare ma sta aspettando. Aspetta. Sì, sono mesi che aspetto di capirci qualcosa. 15:30. E’ ufficialmente in ritardo. Il vuoto, non mi ricordo. 15:32. Con la coda dell’occhio, mentre continuo ad ascoltare musica su youtube, lo vedo accanto alla prima colonna. 3 secondi, per favore dammi 3 secondi per prendere il mio cuore, riposizionarlo serrato nel petto e camminare verso di te come se nulla fosse. Ero talmente vulnerabile da sentire le mie gambe procedere da sole, un gesto automatico, deciso.

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L’Aia. Den Haag

den haag

Nederland wordt door het water geregeerd. Dat kun je wel merken, als je naartoe gaat. Op het water hebben de Nederlanders eigenlijk alles  gebouwd: constructies, civilisatie, dromen. Toen ik in den Haag was begreep ik dat we helemaal niets weten over de wereld. Ons leven beperkt zich altijd tot de grenzen van onze eigen percepties, hoewel er toch duisend van meningen bestaan. De Nederlanders houden van fietsen, terwijl ik nauwelijks kan fietsen. Ze eten om te kunnen overleven, terwijl ik overleef om te kunnen eten. Ze bezetten een helemaal andere manier van leven, ze genieten van dingetjes die voor mij geen betekenis hebben en andersom.

Maar toch op een bepaald moment kon ik me echt thuis voelen. Als je met een andere cultuur kunt communiceren, dan wordt alles gemakkelijker. Je krijgt niet alleen een andere visie op de werkelijkheid, maar ook een nieuwe kleurrijke identiteit.

 

I Paesi Bassi sono governati dall’acqua. Basta andarci per potersene accorgere. Sull’acqua, gli olandesi hanno costruito praticamente tutto: edifici, civilizzazione, sogni. Dopo essermi recata all’Aia, mi resi conto di come in realtà non sappiamo nulla del mondo. La nostra vita viene delimitata dalle nostre percezioni, nonostante esistano migliaia di opinioni diverse. Gli olandesi amano andare in bicicletta, mentre io so a malapena andarci. Mangiano per sopravvivere, mentre io sopravvivo per mangiare. Vivono in un modo completamente diverso, si godono cose che per me sono insignificanti e viceversa.

Eppure per un istante mi sono sentita a casa. Comunicare con un’altra cultura rende le cose molto più semplici. Non si tratta solamente di ricevere una nuova visione della realtà, bensì anche una nuova e variopinta identità.

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Trieste. Il pleut des cordes

viale

Fra non era mai in orario. Mai. Se c’è una cosa che non sopporto, sono proprio le persone in perenne ritardo, che ne hanno sempre una con cui giustificarsi, elencano una serie di sfortunati eventi per farti capire che non è colpa loro, è il fato. Mentre tu sei lì, in viale (per chi non conosce Trieste, il viale sta per Viale XX Settembre, una strada alberata piena di gelaterie, bar, locali, che si anima durante le serate del mercoledì universitario) che aspetti, pentendoti di non essere uscita di casa quella mezz’ora dopo, che ti avrebbe permesso di riprenderti un attimo, dopo il tuo Cours première année Français pour débutants alla SSLMIT(no, non vi fornirò una definizione della sslmit, è meglio non saperlo, credetemi).

Fra arriva, ce la fa. Mi abbraccia e, con quella sua cadenza sarda e quella tipica post-posizione del verbo a fine frase, inizia a raccontarmi la sua giornata. Solite vicissitudini, vita difficile, vita universitaria. A un certo punto mi guarda ed esordisce con : <<ci prendiamo due shot e poi mi racconti, voglio sapere tutto>>.

Cosa c’era effettivamente da sapere? Che vivevo la mia vita sulla base di utopie che, con molta creatività formavo e distruggevo? Che mi ero praticamente bevuta il cervello, avevo puntato tutto sulla casella rossa sbagliata, sul numero sbagliato, di una roulette russa la cui magica sfera non si sarebbe mai posata lì, dove io avevo puntato tutto. Avevo puntato la mia intera esistenza su quella casella, un riquadro ben definito da convinzioni, supposizioni, informazioni grossolane e non esemplificative, leggi: inesistenti, fondate sull’amor proprio che qualcosa del genere potesse effettivamente esistere.

Voleva che le raccontassi nel dettaglio, ancora e ancora, di quanto la follia umana potesse essere reale, di quanto io avessi scoperto un lato di me completamente incosciente, un mondo a parte. Fra rimaneva lì, sognante, ad immaginarsi come sarebbe stato. Era il testimone oculare di un film emozionante, toccante, che ti scuote l’anima, che, sicuramente, non ti lascia indifferente.

Prima del Ponte Rosso, c’è una fontana. Eravamo sedute su una delle panchine di pietra circostanti, il cielo appariva sereno, una leggera brezza di mare ci scompigliava i capelli, regalandoci un attimo di pace, era primavera dopotutto.

<<Ti immagini Fra, se quel giorno si mette a piovere, così all’improvviso?>>

<<Ma dai, a luglio, ci sarà il sole, non preoccuparti>>

Stavamo ancora parlando, quando la brezza si trasformò in un vortice impetuoso, il cielo cominciò a tuonare all’improvviso, la pioggia divenne scrosciante e costante, costringendoci, mentre stavamo ancora ridendo, a tornare a casa. Correvo, avevo scarpe, jeans e giaccia inzuppati. Erano le due del mattino, accesi lo scaldabagno, chiudevo gli occhi, mentre le onde nella vasca mi cullavano, quasi volessero farmi addormentare. Avevo sfidato ogni legge. La tempesta era solo l’antipasto.

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Il mio Brasile. Parte 1

Sao-Paulo-7

Goiabada. Guaraná. Guarujá.  

Potete, in qualsiasi momento, ricorrere a un dizionario e capire il significato di qualsiasi parola. Fidatevi, un mese dopo non vi ricorderete neanche cosa avevate cercato. Potete imparare migliaia di vocaboli, ma vi resteranno solo quelli che avete effettivamente vissuto, fatto vostri.

La seconda volta che andai in Brasile, ero da sola, con uno scalo a Zurigo (con naturalmente mio padre che pretendeva rispondessi al telefono mentre cercavo a 16 anni di spostarmi da un terminal all’altro alla ricerca del mio volo intercontinentale). Viaggiavo in economy, schiacciata a destra e a sinistra nella fila centrale (vi assicuro che per tornare in Brasile, viaggerei anche nella stiva con i bagagli e i cani). Sulla destra, un vecchio Svizzero simpatico come il colera, sulla sinistra um casal brasileiro.

Ovviamente, quella settimana al mese aveva deciso di cominciare sul mio volo di 11 ore, facendomi gustare al massimo il viaggio, leggi: non ho chiuso occhio, ho visto 3495 film noiosissimi e datati ante-guerra e il buscofen potevo solo che sognarmelo.

Sbarcata in stati comatosi all’aeroporto di Guarulhos, la policia federal, insospettita dal fatto che una sedicenne si attraversasse l’Oceano Atlantico da sola, decise di trattenermi un po’ di più, giusto così per prolungare l’agonia. Mi lasciarono andare, trovai all’uscita la mia amica Julia e la sua famiglia, la mia seconda famiglia.

Le strade di São Paulo sono talmente grandi che ti senti insignificante, un puntino microscopico nell’universo: otto corsie, macchine che sfrecciano a velocità inaudita, motoristas pronti a rubare macchine fotografiche ai turisti che si sporgono dal finestrino. Aqui em São Paulo, as janelas têm que ficar fechadas (Qui a San Paolo, i finestrini devono restare chiusi).

L’acqua della doccia scorreva in senso antiorario, d’altronde, ci troviamo nell’emisfero australe, what did you expect? Ma la cosa migliore, era il suo sapore pluviale, era come sentire l’Amazzonia scorrere sulla pelle. Acqua, elemento basico e puro che ti riporta all’esistenza primordiale, non c’è da sorprendersi che il Brasile sia un paese piuttosto mistico e spirituale. Qui persino la quotidianità assume una tonalità diversa, più profonda. Le persone espongono la loro anima, la loro natura, alla luce del sole.

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Let me be

molo bello

Wild thoughts blowing in the air
Even though it wasn’t fair
Wondering if I could stay
My mind was running away

Life ain’t easy they said
It turns me on
It makes me burn
It turns me mad

The others were there
where I had to be
Yet the clouds want to be free

Voices surround me
the emptiness is so fool
Come over
Asked the moon

Crowded streets were noisy today
the sound of nothing flies so fast
I mean, we have passed the past

The future is yet to come
Even though I’m not done

The battle was lost and won*
The misery was his son

The sun is shining again
Over the roofs of this nowhere land
I hope you won’t misunderstand

Let me be
Don’t command

 

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Eu receberia as piores notícias dos seus lindos lábios

eu receberia immagine

Non si può spiegare. Non capiresti. A volte, come in un sogno, vedo il giorno della mia morte. E’ quasi una cosa spiritica, un flash. E, sebbene la donna non appaia, so che è per causa sua che mi sto uccidendo. E ho il tempo di sapere che non mi lascia infelice la fine della nostra storia.

Ne sarà valsa la pena.
Oggi, la Luna sta transitando per la sua casa astrologica preferita. Cancro. Una creatura nata in questo giorno avrà una personalità calma ed equilibrata. Gente buona, quindi. Soffrirà in un posto come questo.
Soffia una brezza venuta dal fiume e la notte è silenziosa e con un profumo di dama-da-noite talmente intenso da diventare nauseante. Fa ancora caldo. Nel pomeriggio, ho visto uccelli volare in formazione verso nord.  Presto avremo freddo. Tranne qui, chiaramente.
L’uomo che esce  dalla varanda della pensione è calvo e panciuto, e indossa una camicia, bermuda a strisce e ciabattine. Saluta storcendo la bocca—ictus?— e si siede sulla sedia di paglia.
Apre il giornale con le sue mani micotiche e grugnisce a ogni notizia che legge.  Tossisce, sbuffa. L’anello di congiunzione tra un essere umano e un bovino.
Un ragazzo del quartiere viene a sedersi sui gradini della scala, come è già successo altre notti. Non gli piace parlare, ma resta lì, ascoltando la prosa di altre persone. I suoi vestiti sono semplici, ma puliti. Il ragazzo è un po’ altezzoso nello sguardo, una specie di sicurezza nello stare al mondo. Qualcosa di segreto nella sua testa, che non riesce a esprimersi ancora, ma che lo informa: tu sei migliore di questa gente che ti circonda. E’ solo questione di tempo e lo sapranno tutti.
Dona Jane arriva con un termos su un vassoio. Il caffè è infernalmente dolce come al solito.
Sta per piovere, Dona Jane.
A dirlo è il tizio, senza togliere gli occhi dal giornale. Una notizia spicca sulla pagina che riesco a vedere: stanno di nuovo liberando il fiume per l’estrazione mineraria. La città è sul punto di una nuova prosperità. Basta vedere come sia aumentato il numero delle puttane in circolazione per il centro e per i lati della rodoviaria. Notte e giorno. Sono le prime a fiutare l’oro.
Ancora non piove, Altino.
Anche Dona Jane parla senza guardarlo. Mette il vassoio sopra il tavolino e mi saluta con un sorriso che unisce affetto e apprensione.
Mi fanno male le articolazioni, dice il tizio.
Sono solo reumatismi, Altino.
A pomeriggio inoltrato ho visto fulmini sulle montagne.
Dona Jane scorge la notte dal portico laterale della varanda. Un’enorme nido di vespe pende dal rivestimento verde acqua. E’ abbandonato.
Non pioverà, la luna è già cambiata.
Dona Jane appoggia le mani sulle sedie. Indossa una camicia a maniche lunghe, nonostante il caldo.
Per nascondere il nome di un uomo che ha tatuato sull’avanbraccio sinistro. Non lo mostra a nessuno. Peccati di gioventù.
Il segreto, diceva Chang, il cinese del negozio, non è scoprire cosa nascondono le persone, bensì capire ciò che mostrano. Ma Chang è morto. Esiste qualcosa di più intimo da esibire al mondo che le viscere? Esiste qualcosa di così osceno?
Il tizio grugnisce e sfoglia le pagine del giornale, come se volesse saltare le notizie che non gli piacciono. Dona Jane torna dentro e il suo passaggio diffonde un profumo gradevole. Lavanda. Il ragazzo mi osserva. Ha delle belle braccia, capelli asciutti e la pelle molto scura. A Chang sarebbe piaciuto.
Pensare al cinese mi fa ricordare la donna, in questa notte scura come la pece in cui Urano, il dio cordiale, attraversa il grande destriero di fuoco. Oltre a me, era l’unica a credere in queste cose.
Andai al negozio di Chang. Mentre aspettavo che lui imballasse i film che avevo comprato, fui distratto dalle foto della vetrina. Il volto di una donna in un porta-ritratto catturò la mia attenzione. Era ancora giovane, e molto bella. Aveva gli occhi grandi e scuri e sorrideva come se stesse vedendo, al di là di chi la stava fotografando, qualcosa che la lasciasse immensamente felice. Ho visto donne sorridere in quel modo solo per i gatti e i bambini.
Che viso meraviglioso, dissi.
E sentii una voce alle mie spalle:
Grazie.
Mi voltai e me la ritrovai di fronte, la donna del porta-ritratto.
I capelli erano più lunghi e sorrideva in un modo ben diverso dal sorriso della foto. Un volto con una luce straordinaria. Un paio d’occhi color fango di bauxite mi inchiodarono. Persi il controllo.
Chiedo scusa, dissi.
Scosse la testa, senza distogliere lo sguardo da me.
Che peccato. Tanto tempo senza ricevere un complimento e , quando lo ricevo, subito dopo mi chiedono scusa.
Sentii uno spasmo elettrico percorrermi sotto la cintura.
Con la punta dell’occhio, vidi che Chang mi stava osservando.
In questo caso, mantengo il complimento, dissi.
Che bene, sono contenta.
E restò contenta mentre si accostava al bancone per consegnare a Chang una manciata di film rivelazione. Indossava una camicia che lasciava in mostra, alle sue spalle, mezza dozzina di lentiggini e un reggiseno nero.
Il professore Benjamin Schianberg scrisse riguardo alle tentazioni nel suo libro O que vemos no mundo . Secondo lui, alcuni uomini sublimano i loro desideri, proiettandoli in un piano solamente mentale, e ciò è sufficiente per soddisfarli. Altri, dice Schianberg, nonostante resistano con diversi gradi di sforzo, finiscono per cedere alle tentazioni. Sono quelli che definisce “uomini a sangue caldo”.
Aprì la busta e sparpagliò le foto sul bancone di vetro. Un arcobaleno; Il numero di metallo forgiato sulla facciata di una casa antica; radici di un albero che sembravano una coppia in atteggiamenti amorosi con molte gambe e braccia; il camino di una fabbrica di mattoni; una bicicletta caduta nella pioggia. Nessuna persona o animale. Nonostante ciò, belle foto, fatte da qualcuno con occhio e senso.
Notò il mio interesse.
Ti piacciono?
Questa è molto bella.
Indicai una delle immagini: raggi di sole che entravano dai buchi del tetto di una casa in rovina.
Poesia e precisione.
Dissi questo, guarda se puoi. Mi guardò intrigata. E poi, rise.
Fai il fotografo?
Lo sono stato, dissi. Oggi fotografo solamente per me.
E cosa fotografi?
Un po’ di tutto.
Come me.
Presi la foto e la esaminai da vicino.
Non fotografi le persone.
Non mi piace.
Cavolo, pensai, la foto che avevo tra le mani non era solamente bella, era formidabile. Uno dei raggi del sole incideva, in secondo piano, una bambola di stoffa buttata su un cumulo di macerie. Sembrava una luce che stesse illuminando una ballerina caduta su un palco.
La bambola stava già lì?
Chiaro.
Chang spinse il pacco di film verso di me. E lei stava già rimettendo le foto nella busta, quando le dissi:
Mi piacerebbe molto averne una copia.
Bloccò il gesto di collocare le foto nella busta, volse lo sguardo e mi studiò, come se stesse valutando se avessi avuto merito sufficiente per ricevere ciò che stessi chiedendo. Sostenere quello sguardo profondo fu un’esperienza difficile. Mi fece sentire indifeso. Restai con l’impressione di essere visto veramente per la prima volta nella vita. E anche di vedere qualcosa che il mondo non mi aveva mostrato fino ad allora.
Concordando con il professor Schianberg, non è possibile determinare il momento esatto in cui una persona si innamora. Se fosse, afferma, basterebbe un termometro per provare la sua teoria secondo cui, in quell’istante, la temperatura corporea si alza di parecchi gradi.
Una febbre, la nostra unica aurea divina. Schianberg dice inoltre: innamorandosi, un “uomo a sangue caldo” sperimenta il sentirsi indifeso e vulnerabile. Non cacciò; fu cacciato.

L’idea sorse nel momento in cui lei sorrise, come se mi avesse approvato all’esame a cui mi aveva sottoposto, e separò la foto da regalarmi. Non mi fermai per riflettere, misi semplicemente l’idea in pratica. Sangue caldo.
Non è questa la foto che voglio, dissi.
E indicai il porta-ritratto nella vetrina. La disarmò. Sentii la sua respirazione alterarsi. Chang aprì la bocca, mostrando i suoi dentini da topo, e fece ciò che qualsiasi buon commerciante avrebbe fatto: spinse il vetro della vetrina e porse il prodotto perché il cliente possa esaminarlo da vicino. Il viso era proprio eccezionale: angoloso, strano. Gli occhi avevano antichità e abisso.
Vogliamo ciò che non possiamo avere, dice il professor Schianberg, il più oscuro dei filosofi dell’amore. E’ normale, sano. Ciò che distingue una persona dall’altra, aggiunge, è quanto ognuno vuole ciò che non può avere. La nostra razione di polvere di stelle.
Abbassò la testa, toccò l’angolo delle labbra con la foto. E ci pensò per un secondo e mezzo. Allora capì il gioco. E lo accettò.
Facciamo una cosa più equa, disse. Scambio questo porta-ritratto per una delle tue foto, che te ne pare?
Chang rise. Il suo udito anticipò il rumore del registratore di cassa.  Avanzai una proposta:
Ti avviso già che ci perdi, non ho mai fotografato nulla di così bello.
Quel viso straordinario si colorò un po’. Solo un po’.
Saltai diverse case e le diedi il mio biglietto da visita.
Passa un giorno nel mio studio.
Lesse e fece la domanda che sento da quarant’anni.
Cauby? Come il cantante?
Durante l’adolescenza, mi dava fastidio. Non mi piaceva il cantante. Con il tempo, passò. Mi calmai. Non mi importava più. Vidi addirittura un suo show in un bar di San Paolo. E se qualcuno mi faceva questa domanda, io mi limitavo a rispondere:
Sì.
Lei mi porse la mano.
Piacere, Lavinia.
La mano era grande, massiccia; il palmo, delicato. I suoi immensi occhi scuri mi scrutavano – sorridevano per lei. Pagherei per poter fotografare quel volto. Una volta, nell’entroterra spagnolo, una donna in strada richiese un compenso per essere fotografata.
Pagai. Ne valeva la pena.
Diede i soldi a Chang e non disse nulla mentre aspettava il resto. Approfittai del fatto che indossasse i sandali per osservare i suoi piedi magri, ossuti, quasi mascolini. Nonostante il formato non mi piacesse, pensai che stessero bene a lei. Una composizione armonica. Percepì che li stavo osservando, ma non le diede fastidio. Gente senza problemi.
Chang mise il resto sul bancone, disponendo banconota su banconota. Lei mise il denaro nella borsa e poi mi fissò. Sentii una sirena in lontananza.
Passo un giorno di questi. Telefono prima.
Quando vuoi, dissi.
Salutò e uscì al sole del pomeriggio. Uno schock di luminosità. Mi accostai alla porta per vederla allontanarsi. Chang apparve al mio fianco.
Sai chi è?
No, dissi.
Vuoi saperlo?
No, ripetei, senza toglierle gli occhi di dosso.
Chang congiunse le mani, scrocchiò le dita.
Come vuoi, disse.
Preferisco scoprirlo con calma, pensai. Assaporare il mistero. All’isolato seguente, attraversò la strada e sparì in mezzo alla gente che andava in centro. Colorata in mezzo al grigiore che dominava attorno. Guardai il viso nel porta-ritratto:
aveva una luce particolare, solo sua, e un’aria di chi sarebbe potuta essere chi avrebbe voluto nella vita.

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Postcards from Italy

E‘ il dettaglio che trascuriamo che ci rivela, a distanza di anni, la verità. Potrei paragonarlo a un libro: ne leggi la trama, prosegui addentrandoti nel fulcro del racconto, continui a non capirci molto, anche se in realtà, non sei tu a non aver capito, il tuo subconscio lo sa benissimo, ma tu lo ignori, perché fino a quel momento ti va bene così. Postcards from Italy è l’unico video che non ho guardato, o almeno, non avevo guardato, fino ad oggi. Ed è proprio nelle frasi finali la tua risposta. Si tratta dei tuoi segnali sottili che lanciavi, hai lanciato, lanci, nel corso degli anni, sperando che quella persona li colga. Mio caro, posso dirti che, di questo passo, ne passeranno anche altri 30, lei si sarà già sposata, se tu non ti dai una svegliata, adesso, sì dico proprio adesso, in questo preciso istante. E, finalmente, ho capito il mio ruolo in tutto questo, io che non ho niente a che fare, né con te, né con il tuo passato, né con il tuo presente, né con il tuo futuro.

Prima che tu arrivassi a mettere il caos nel mio piccolo universo, io ero fidanzata e felice, col cuore al posto giusto e che, dopo tanto tempo, sono riuscita a rimettere al suo posto, facendo una fatica (e non solo io) che tu neanche puoi immaginare. La mia comparsa, evidentemente, era il segnale per te, per la tua vita, di raccogliere il coraggio e di fare lo stesso. Di metterti in gioco fino in fondo, di fare quel salto nel vuoto che, potrebbe farti sfracellare al suolo con una violenza inaudita, che ti spezza l’anima senza pietà, giorno dopo giorno. Ma si sopravvive, te l’assicuro, e poi arriva anche un giorno, in cui riesci ad essere felice come prima, se non di più. Ma non puoi restare inetto, inerme, con le labbra rifatte di alcol tutto il tempo. Prendilo quel cavolo di volo per Valencia.

Il successo non è garantito, anzi, in conto devi mettere la disfatta totale e chi meglio di me potrebbe assicurartelo? Ma ne vale la pena, sentirai, almeno per un giorno, i pianeti allinearsi e tu, tu non sarai un corpo inerme sulla superficie terrestre che fluttua senza meta, aspettando che i miracoli gli caschino dal cielo. Prendilo quel cavolo di volo per Valencia. Non capisco veramente come chi ti sta accanto non se ne accorga o, semplicemente, metta la testa sotto la sabbia. La vita, per quanto ne so, ne sappiamo, mi risulta, è una sola. Perché stai perdendo l’occasione di essere la persona più felice del mondo, perché, anche se hai lo 0,000000000001% di possibilità di riuscita, non te la giochi? Sinceramente, io rifarei tutto da capo, nonostante questo mi abbia portata to the hell and back.

Che tu sia vuoto, non ci crede nessuno, o almeno, io non ci credo. Il problema anzi è proprio questo, che non lo sei, che hai questo sasso nella scarpa che ti fa zoppicare da almeno un dieci anni, quel qualcosa che ha segnato il tuo confine tra infanzia e adolescenza, nel più dolce e amaro dei modi. E a questo tuo pensiero, hai una fedeltà assoluta che, dall’altra parte, ti fa respingere qualsiasi altra cosa, oppure la confina a uno stadio passeggero e superficiale, anche quando magari tu stesso desidereresti portarla a un piano superiore, cercando un’accezione diversa. Per me, puoi provarci per altri tanti anni ancora, con scarso risultato.

Se ti vuoi davvero bene, la smetti di rifarti le labbra di alcol, prendi quel volo per Valencia e te la giochi, e ne hai di carte da poterti giocare. Se ti dovesse andar bene, saresti finalmente felice. Se così non dovesse andare, ti sarai (parzialmente) liberato della cosa. Perché parzialmente? Perché l’amore non si crea e non si distrugge, si trasforma.

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